Tutti odiano l’olio di palma – ma perchè? 10 Dic, 2018
Da qualche anno basta nominarlo per scatenare l’isteria collettiva dei consumatori, tanto che sulle confezioni di molti marchi alimentari è spuntata la fiera dicitura “senza olio di palma”; i capi d’accusa sulla testa di questo grasso vanno dalla deforestazione al cancro, passando per l’estinzione degli oranghi e il diabete di tipo 2. Ma queste accuse sono tutte vere? E se lo sono, com’è possibile che per tanto tempo questo ingrediente abbia trovato un posto indisturbato sulle nostre tavole?
Innanzitutto, è bene sottolineare che l’olio di palma non si trova solo nelle merendine, diffusissimo perché denso e insapore, e dunque non influisce sulla resa dei cibi, ma è quasi onnipresente: dagli integratori al cibo per animali, dai medicinali ai cosmetici (presenti esclusi, ndr). Perché? Senza scervellarci troppo sull’analisi della sua qualità: perché è comodo ed economico.
La produzione si concentra soprattutto in Indonesia e Malesia, che si aggiudicano più dell’ 85% del totale mondiale (con una conseguente crescita economica vertiginosa), e la sua ordalia comincia tra il 1986 e il 1987, quando negli Stati Uniti i promotori del mercato dell’olio di semi di soia cominciano una guerra commerciale, la cosiddetta Tropical Grease Campaign, contro l’avanzare sulla scena globale di quelli che, da quel momento, vengono battezzati gli oli tropicali (palma e cocco).
In Italia questo boicottaggio rimane in sordina fino a fine 2014, quando le leggi europee impongono maggior trasparenza sulle etichette e improvvisamente ci accorgiamo che l’olio di palma è qui, ed è ovunque.
Era il 13 dicembre 2014, e più o meno da quel momento si è accesa una sorta di isteria collettiva, rafforzata da una massiccia campagna finalizzata al boicottaggio che a oggi conta più di 165mila firme.
Il primo capo d’accusa è di essere pericolosissimo per la salute, e fioccano studi sui potenziali danni al pancreas (con conseguente rischio di diabete) legati al consumo di una proteina il cui nome è tutto un programma: acido palmitico.
Il problema? L’acido palmitico è sì caratteristico nell’olio di palma, ma è contenuto anche in altri grassi saturi e presente in quantità degne di nota anche in formaggi, carne, burro, e perfino nel latte materno.
I più attenti avranno notato che ho parlato i grassi saturi: ed ecco il punto! L’olio di palma è un grasso saturo, e ormai abbiamo interiorizzato il concetto che queste sostanze vanno assunte con moderazione per limitare danni cardio-vascolari. Dunque non è il singolo ingrediente a fare male di per sé, ma il consumo esagerato di grassi saturi. In altri termini, che vi massacriate di Nutella o mangiate il burro a morsi il problema non cambia.
Lo stesso Ministero della salute, per placare gli animi sulla questione, scrive sul suo sito che
La letteratura scientifica non riporta l’esistenza di componenti specifiche dell’olio di palma capaci di determinare effetti negativi sulla salute, ma riconduce questi ultimi al suo elevato contenuto di acidi grassi saturi rispetto ad altri grassi alimentari. Evidenze epidemiologiche attribuiscono infatti all’eccesso di acidi grassi saturi nella dieta effetti negativi sulla salute e, in particolare, un aumento del rischio di patologie cardio-vascolari.
Sventato il pericolo per la salute, un’altra mannaia si alza sul capo dell’olio di palma: i problemi ambientali legati alla sua coltivazione.
Circolano ormai da anni foto spaventose di foreste rase al suolo e oranghi in pericolo (ma non solo loro: sono ben 190 le specie messe a rischio), e gli ambientalisti avvertono che l’ecosistema viene distrutto rapidamente e senza nessuna remora, tanto che a questo ritmo l’intera superficie forestale dell’Indonesia potrebbe essere rasa al suolo entro pochi anni.
Di nuovo, però non è l’olio di palma il problema di fondo: trattandosi di paesi in via di sviluppo, e di sviluppo rapidissimo e ancora poco controllato, anche se si trattasse di coltivazioni di pomodori, caffè o soia, in mancanza di una legislazione chiara ed equilibrata la questione non cambierebbe.
Si è comunque istituita la RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil), con lo scopo di controllare e cercare di regolamentare la situazione a livello internazionale e renderla più sostenibile possibile (la stessa Ferrrero ha aderito, e ricorda nelle sue pubblicità che non rinuncia all’olio di Palma ma lo sceglie sostenibile).
Inoltre, proprio in relazione alla crescente richiesta di sostituire le coltivazioni di palma con altre, bisogna tenere conto del fatto che il rapporto tra il terreno coltivato e la resa del prodotto è di svariate volte migliore rispetto a praticamente tutti gli altri oli vegetali disponibili per l’industria alimentare. Infatti un ettaro di palme da olio produce 7 volte l’olio che produce un ettaro di girasoli. Questo vuol dire che se l’industria fosse costretta a sostituire l’olio di palma con altri oli vegetali, dovremmo destinare alla produzione di olio molta più terra coltivabile, a parità di domanda. E la superficie coltivabile, quando aumenta, lo fa necessariamente a scapito degli ecosistemi naturali, foreste comprese.
la coltivazione della palma da olio richiede meno input energetici (acqua, pesticidi, fertilizzanti, carburante) rispetto alle alternative, ed è enormemente più produttiva.
Come per la maggior parte dei problemi ecologici mondiali, dunque, non possiamo dunque demonizzare un ingrediente a scapito di un altro, se non siamo disposti globalmente a rivedere le nostre abitudini alimentari e non!
Se lo bandiamo o lo boicottiamo, altri olii più affamati di terra probabilmente prenderanno il suo posto.
ha ben commentato Inger Andersen, direttore generale dell’Iucn.